lunedì 9 gennaio 2012

Diario del tifoso eterno (Parte I: Magma e Cibali)

Devo questo continuo alternarsi di amori a un’insolita trattativa di mercato che si svolse nell’estate del 1998, subito dopo i mondiali di Germania. L’allora giocatore del Marsiglia, Zinedine Zidane, era il calciatore più rinomato del mondo.
L’avventura mondiale non si era conclusa bene per i transalpini, sconfitti in finale da un’odiosissima Italia. In particolare Zidane, dopo aver tirato un rigore con un ghirigoro beffardo, abboccò a una provocazione e abbandonò il campo, forse per non assistere a un epilogo tanto volgare. I commentatori concordarono però nel ritenere memorabile, dei mondiali tedeschi, non la vittoria italiana ma l’esibizione di Zidane nei quarti contro il Brasile, in cui il giocatore di origini berbero/algerine sembrò quasi lui solo sufficiente per sconfiggere undici quotatissimi avversari, rivelando con magie autentiche, che sono quelle che non si vedono, l’inganno insito nell'ostentato palleggio dei sudamericani.
A quei tempi, non avrò avuto più di otto anni.
D’estate, insieme con gli ombrelloni, si aprì un’asta selvaggia tra le squadre più importanti del mondo. Il Real Madrid mise sul piatto, oltre al denaro, l’autorevolezza delle sue undici dozzine di Lighe, la Juventus i suoi (allora) cinquantaquattro scudetti. A lungo i giornali sportivi furono assediati da una snervante serie di annunci e smentite. Improvvisamente, fu lo stesso Zidane a porre fine a questa letteratura scadente, dichiarando in una conferenza stampa -ammantata oggi da un velo di leggenda- di aver raggiunto un accordo con il Catania.
Zidane spiegò, con estrema franchezza, i motivi della sua decisione. L’esigenza che lo aveva spinto alla pendici dell’Etna era legata al suo secondo grande talento. Raffinatissimo percussionista, e studioso di ritmiche computerizzate, Zidane deliziava le platee dei bassi di Marsiglia da almeno un paio d’anni, con il suo gruppo chiamato “I dervisci rotanti” (“Les derviches tourneurs”). Suonavano nei locali che puzzavano di bouillabaisse, in cui la gente di porto si accalcava pianificando arditi traffici notturni. La loro musica era un impasto di generi che qualche critico musicale avveduto definì “artigianato sintetico”. L’aspetto più singolare era dato dal fatto che si trattava senz’altro di una musica da ballo, ma il pubblico rimaneva fermo, stranamente composto. Ciò risultò poi essenziale per comprendere l’estro calcistico di Zidane, che non ebbe mai timore di affermare che la danza è “questione squisitamente interiore” e che il movimento lo lasciava volentieri ai balletti dei teatri lirici. Catania, in quel periodo, rappresentava per l’Italia ciò che Marsiglia era per la Francia, la quintessenza di un mood mediterraneo, un crocevia di musicisti, donna splendida e angiporto. In un tripudio di rossazzurre stelle filanti, Zidane fu presentato dinanzi a un Cibali gremito.
Capite bene che per un bambino innamorato del calcio, nato sulla costa ionica messinese, le buone regole dell’educazione volevano che si dovesse tifare per il Messina e che, se altre squadre erano contemplate, la deroga si giustificava solo per il gusto tutto locale di sottomettersi alle influenze colonizzatrici di volta in volta juventine, milaniste o interiste. Invece, di nascosto ai miei genitori, la domenica mattina, anziché recarmi al “Giovanni Celeste”, uscivo due ore prima per prendere il treno in una piccola stazione dietro il cui ultimo binario c’era solo la spiaggia, e snocciolavo come grani di un rosario tutti i piccoli borghi marinari che precipitano verso il canale di Sicilia, sotto l’ombra confidente del Vulcano e le siepi odorose dei gelsomini.
Ciò che si prova andando allo stadio negli anni della giovinezza è un’emozione che non si ripresenta. A quel trasognato palpitare, tra formazioni immaginarie e prove tecniche di esultanza, si aggiunse per me il senso magnifico di un allontanamento, di una relazione adulterina e segreta. Zidane giocò un campionato straordinario, non si contavano le sue piroette, i lanci precisi, le traiettorie impensabili. L’allenatore del Catania disse che aveva del tutto rinunciato agli schemi: con la lucidità di un giocatore di scacchi, Zidane creava ogni volta lo schema, perché riusciva con il suo (falso, si chiarirà meglio ora in che termini) movimento a orchestrare la squadra, convocando i compagni di squadra sulla zolla esatta del campo, spostando il raggio dell’azione a ogni sua impercettibile finta.
Intanto io fui iniziato da qualche capo ultrà ai panini ripieni di carne di cavallo, alla ricotta iblea servita con marmellata di mandarino. I miei occhi si scontravano coi muri di pietra lavica, seguivano nei vicoli fantasmi di pirati claudicanti, il fiato accelerava sui gradini dello stadio per raggiungere quel posto proibito, segno tangibile del tradimento.
Partita dopo partita, compresi qual era l’assunto filosofico di Zidane. Noi siamo abituati a percepire il movimento soprattutto per gli spostamenti compiuti dal pallone, lanciato da una parte all’altra del rettangolo di gioco. Con la sua impareggiabile capacità di tenerlo incollato ai piedi, Zidane ne neutralizzava il dinamismo, realizzando, se si vuole, un gesto contrario all’essenza stessa del calcio. Il pallone rimaneva sempre fermo, a muoversi in realtà era il giocatore algerino, che creava coi suoi trucchi mille possibilità di movimento, disorientando i calciatori della squadra avversaria. Noi sugli spalti del Cibali eravamo quel pallone: fermi, sospesi in quell’incredulità, danzavamo, come impararono presto a fare nei locali sotto la via Etnea gli spettatori dei concerti di Zidane e del suo gruppo, che presto vantò collaborazioni con i più prestigiosi Maestri della scena musicale catanese.
Il Catania restò in corsa per lo scudetto fino a poche giornate dalla fine, fino alla domenica di maggio in cui Zidane realizzò il suo capolavoro, superando anche la prova contro il Brasile.
Quella domenica la luce della costa ionica sorse appannata. La polvere affaticava l’aria come un presagio, che non tardò a confermarsi nel primo pomeriggio, con la violenta eruzione del vulcano. La partita era importante, uno scontro diretto con la Spal se non ricordo male. I ferraresi, con una massiccia rimonta nel girone di ritorno, ambivano a una delle quattro posizioni che garantivano l’accesso alla Champions League. Tanta era la tensione che lo stadio quasi non si accorse del pericolo: i giocatori seguitarono a giocare e gli spettatori a urlare nella bolgia del Cibali, mentre il fumo si allargava nel cielo e gli scoppi divennero più intensi. La lava si aprì percorsi nuovi e scese minacciosamente verso il centro abitato. Noi la vedemmo entrare dai boccaporti dello stadio, dall’ingresso per la maratona, dal tunnel degli spogliatoi. I giocatori scappavano terrorizzati, aggrappandosi ai pali delle porte, i tifosi si ritrassero sulla cima delle gradinate. Zidane incurante continuò a giocare, il pallone attaccato ai piedi in quell’illusione di movimento. Scansò un rivolo incandescente con un doppio passo e disegnò una giravolta salvando il pallone dalle fiamme. In quel preciso istante, l’incedere della lava, agitato da fremiti ancestrali, si fermò, come ipnotizzato, nello stesso modo in cui lo fu il Brasile e lo fummo noi per tutta quell’incantevole stagione. Il magma si raffreddò nella contemplazione di Zidane, e nel sollievo generale si sentì qualcuno ipotizzare che quella forza oscura e cieca trattenuta in roccia non potesse più avanzare perché, adesso che era immota, dentro di sé stava ballando.


Arturo

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