venerdì 2 marzo 2012

Diario del tifoso eterno (Parte III: Solo con i tuoi occhi)

Di tutte le volte che ho tradito, la più avventurosa fu sotto la bandiera blu e rosso granato, non tanto per lo scoramento che mi invase dopo aver abbandonato i confratelli di Francis-Le Blé, quanto perché mi condusse a un approdo inatteso, come se il destino avesse voluto ricambiarmi con la mia stessa moneta fedifraga. Fu come se mi dicesse, bene, ho capito che il tuo girovagare è una strategia per truffarmi, ma non credere che io non presenti il conto lo stesso, e così accadde che mi ritrovai per la prima volta senza direzione, come un turista a cui qualcuno si sia divertito a capovolgere i cartelli stradali.
In origine, come tutti, fui ammaliato dalla morbida tirannia calcistica di cui il Barcellona avvolse il calcio europeo per almeno un lustro. Le agiografie sono copiose, basterà qui ricordare l’ininterrotto fraseggio, il sistema di gioco sviluppato fin dalle giovanili, i ricami che impreziosivano il gioco di attacco. La mia generazione, ansiosa di assicurarsi un frammento di eternità, proclamò l’argentino Lionel Messi il più grande giocatore di tutti i tempi. In breve tempo si moltiplicarono gli emuli, una squadra italiana, la più sensuale, fu scelta per replicare con un esperimento, che solo molto tempo dopo ebbi l’ardire di definire virale, lo stupefacente modello catalano.
Trovai lavoro di contrabbando in una farmacia (portavo i farmaci a domicilio, come se si trattasse di insalate) e quanto guadagnato mi bastava per pagarmi l’affitto di una stanza vicino al Camp Nou, in una traversa di Avingùda de Madrid. Arrivai in tempo per celebrare la vittoria dell’ultima Liga, in cui furono più volte umiliati i rivali del Real, e per assistere alla spaventosa dimostrazione di classe esibita nella finale del Campionato Europeo contro gli inermi -quella sera- inglesi del Manchester United.
Sul finire dell’estate, conobbi Alejandra. Per qualche strana ragione, Barcellona è considerata luogo privilegiato per iniziazioni e conoscenze carnali, quasi si volesse rimuovere, confinandola in un unico punto, la banale constatazione che le tenaglie del desiderio stringono a loro insindacabile capriccio, incuranti della varietà -e ancor più dell’opportunità- dei contesti. Alla luce degli eventi che seguirono, mi sono formato un’idea in parte diversa, per cui la fama cordialmente orgiastica della città catalana potrebbe essere il riflesso di una precisa strategia volta a commerciare il sesso (e il calcio?) come gioco, senza desiderio e, verrebbe da dire, senza attrazione.
Alejandra era sia bella che intelligente, cosa inconcepibile per le intelligenti. A volte, mi imbarazzava andarci in giro, perché le sue tattiche di abbigliamento erano studiate con la stessa minuzia di chi costruisce navi in bottiglia, solo che lo scopo ultimo era scatenare una reazione di autentico panico, misto ad angoscia, in chi avesse la ventura di passarle accanto, in metropolitana come nelle pulperie di Carrèr de la Mercé, dove passavamo interi pomeriggi a dilungarci davanti ai crostini con le acciughe e al fritto di orecchie di porco.
Ma ben più temibile della sua vocazione a sedurre, e forse in qualche modo a essa stranamente legata, era la fermezza con cui si proponeva di distruggere, con dialettica serrata e pensiero tutto femminile, Barcellona, e soprattutto il Barcellona, come fenomeno superficiale di una più ampia concezione del mondo.
Alejandra era tifosa, anche se forse la parola più esatta sarebbe dedita, dell’Espanyol. Della squadra minore di Barcellona, di cui io prima di allora neppure consideravo l’esistenza, seguiva tutte le partite, in casa come in trasferta. Sebbene si sia sporadicamente affermato nella Copa del Rey, l’Espanyol non è di certo motivo di particolare orgoglio per i suoi tifosi, e ancor di meno lo era in quegli anni in cui non riusciva a sollevarsi dalle secche di una classifica medio-bassa.
Nulla la faceva infuriare di più della mia infatuazione per il Barcellona, e rifiutava con sdegno ogni argomento che derivasse dalle evidenti e plastiche abilità dei campioni del mondo. In una delle prime domeniche del campionato, mi convinse a seguirla al Cornellà-El prat, per vedere un qualche malaugurato Espanyol-Real Zaragoza. La partita, per me che venivo dalle pirotecnie del Camp Nou, fu di una noia mortale. Non succedeva niente, le squadre sembravano bloccate, incapaci di creare azioni o di abbozzare una trama di gioco dignitosa. Ci fu quella sera soltanto una cosa sconvolgente, il modo con cui Alejandra seguiva la partita, la compassione e il piacere quasi fisico con cui avvertiva le vibrazioni di uno spettacolo sportivo deludente ai miei occhi, ma straordinariamente intenso ai suoi, o forse sarebbe più esatto dire alle sue narici e ai suoi pori, perché sembrava che lo assorbisse, come se si trattasse di aria o calore.
Tornando dallo stadio, Alejandra assalì il mio disorientamento, contestando ancora una volta che si potesse anche solo concepire un sostegno per il Barcellona. “Chi te l’ha detto che allo stadio si va per divertirsi? E soprattutto, come puoi pretendere che ventidue persone che corrono per novanta minuti facciano di tutto per divertirti? Solo perché paghi il biglietto, dici, allora Barcellona è il posto giusto per te, paghi e ti svaghi, sulle Ramblas come allo stadio”. Provavo in tutti i modi a calmarla, ma i miei tentativi la sobillavano ancora di più. “Il Barcellona è come un libro di Cortàzar, un funambolismo verbale spacciato per esistenza. Tu non capisci niente di calcio, come del resto di letteratura, il calcio è dolore, è fatica, e il fiato avvilito che regge la mediocrità. Tu vai a vedere i giochini dei tuoi prediletti, io vado a sentire uomini sputare e ansimare, sai come starebbero meglio con una giapponese a massaggiarli in quell’ora e mezza?”. A nulla valse farle notare che la giapponese li avrebbe potuti massaggiare per tutto il resto del giorno.
In quell’atmosfera di ostilità, l’accompagnai fino a casa sua, dove per la prima volta mi disse “sali”. Pensai che fosse l’inizio, adesso so che era la fine. Nell’intervallo brevissimo di quella notte, Alejandra mi riversò addosso la stessa furiosa ebbrezza, la stessa compenetrazione con cui aveva vissuto la partita dell’Espanyol, e nel buio nitido in cui la toccai per l’unica volta mi sorpresi a restituirle queste capacità sconosciute, arrivando fino al fondo del suo respiro, nei territori aspri e per nulla amichevoli della sua anima.
La mattina dopo mi comunicò che non mi avrebbe voluto vedere mai più. Che andassi pure a divertirmi con qualche italiana sulle Ramblas o a una partita al Camp Nou. Per mesi vagai per Barcellona senza meta e senza speranza, cercando di comprendere cosa mi fosse successo, tornando con la mente ai fasti del Barcellona e agli stenti dell’Espanyol, a quella notte indimenticabile, all’oscuro riferimento a Cortàzar, che pure tanto avevo amato.
Ho appreso che Alejandra porta lo stesso nome del fiammeggiante personaggio di “Sopra eroi e tombe”, il romanzo di Ernesto Sàbato. Lo lessi di un fiato, come per incontrarla ancora una volta, tanto fui sicuro della sua identificazione nell'inafferrabile vagabonda di Buenos Aires. Cominciai a seguire le partite dell’Espanyol, le magre sconfitte, i pareggi sordidi, cercando quello che intravidi attraverso Alejandra, il risvolto oscuro, la materia affamata, la volontà trattenuta e inesplosa.
Per ironia della sorte, quell’anno il Barcellona cominciò a manifestare qualche crepa nel suo progetto di effusione calcistica, e se oggi potessi parlare ad Alejandra le direi che aveva ragione, che i miei occhi erano ciechi e la mia pelle occlusa, che niente è più orribile del matrimonio tra potere e bellezza, ma che se un dribbling (o un avverbio) possono non condannare Barcellona e il Barcellona, ciò avverrà solo quando sarà per riscattarlo dal declino, per sollevarlo un istante dalla dannazione e dalla sconfitta.


Arturo

martedì 7 febbraio 2012

Diario del tifoso eterno (Parte II: Stade Brestois 29)


“Essere primi mi sta sulle palle, ma godiamone senza limiti”
Alex Dupont


A fregarmi la seconda volta è stato il biliardo. Non nel senso del biliardino, sport peraltro di eccelso lignaggio, ma il biliardo vero e proprio, quello che si gioca coi birilli e le stecche.
Nei sotterranei siciliani abbondano corridoi illuminati di luce al neon, che si affacciano sulle cantine delle case. In ogni cantina si pratica un diverso gioco d’azzardo, l’attività non conosce soste, variano i partecipanti, ma ciascun siciliano che si rispetti sa che per astrarsi dalle noie del quotidiano basta suonare un citofono e scendere pochi gradini di una scala. Così rimette in moto la sorte; talora si affida alle carte, altre volte insegue le traiettorie delle biglie verso le buche o i cinque birilli disposti in croce, uno rosso centrale e quattro bianchi attorno, nella variante denominata “all’italiana”.
Durante una mia temporanea fuga dalla realtà -impareggiabile è il biliardo come strategia per marinare la scuola- mi capitò di ascoltare un discorso sul calcio tra i giocatori del tavolo accanto. Entrambi erano di origine straniera, poteva trattarsi di marinai di passaggio che qualche frequentatore del porto aveva indirizzato al biliardo per ingannare le ore dello sbarco. Uno di essi aveva un nome bizzarro che non riuscii a ben distinguere, il suono finiva in “elle”, fu proprio da lui che sentii per la prima volta parlare dello “Stade Brestois 29”.
L’anno precedente, lo “Stade Brestois 29” -o, più comunemente, il Brest- aveva suscitato il pigro interesse delle testate sportive francesi più accreditate. Una squadra di sconosciuti aveva condotto la classifica del campionato per tutto il girone d’andata, per poi declinare, come ovvio, nella parte finale della stagione.
Nell’anno in corso, si era molto parlato di un avvicinamento di Carlo Ancelotti alla panchina del Brest. Cosa avesse potuto spingere un allenatore di indubbia fama, vincitore di campionati nazionali e coppe europee, inventore di Pirlo, a considerare un’ipotesi di lavoro così marginale era appunto il tema della conversazione che seguivo da un tavolo all’altro nella penombra della sala da biliardo.
I marinai sostenevano che Ancelotti, uomo dalla curiosità inappagabile, fosse attratto dalle voci strane che circolavano intorno alla squadra, legata da un’assiduità quasi religiosa, se non familiare. Era noto che l’allenatore in carica, Alex Dupont, aveva imposto la regola della prima colazione comune e del doppio allenamento quotidiano a qualsiasi costo, anche nel mezzo delle severe tempeste che si abbattono sulla costa bretone.
A questa rigidità faceva da contraltare una libertà quasi complice lasciata nella vita di tutti i giorni: non era infrequente, nel racconto dei marinai, trovare i calciatori a bere birra con la gente del porto o a corteggiare le licenziose fanciulle locali.
Sebbene prodighi nelle cose terrene, i calciatori del Brest non si risparmiavano neppure in fatto di devozione, riconoscendo autorità spirituale assoluta al loro capitano, Oscar Ewolo, nativo del Congo, difensore e pastore protestante.
Doveva essere questo impasto di sensualità e spirito, unito al fascino di quei luoghi così estremi, delle rovine di Carnac, con le memorie druidiche e i crostacei succulenti, a destare l’interesse di Carlo Ancelotti.
Ma ciò che destò il mio di interesse fu il legame, anch’esso quasi religioso, che univa la tifoseria del Brest alla squadra. Per la verità, la parola esatta, ben lungi da unire, dovrebbe essere dividere: per quanto lo stadio Francis-Le Blé fosse rinomato per essere il più assordante dell’intero campionato francese (“un frastuono né animale né metallico, un rimbombo di vento piuttosto, sembra di giocare non sulle rive dell’oceano, ma già sopra, in costante rollio”, ebbe a scrivere un intimorito avversario), i tifosi del Brest tenevano un contegno assai singolare, che consisteva nel (non) assistere alla partita voltati, dando le spalle al rettangolo di gioco.
Sul significato esatto di questo comportamento sono stati versati fiumi di inchiostro, ma nessuna ricostruzione è apparsa finora esaustiva. Di certo, c’entra il disinteresse per il risultato, e anche per il bel gioco. Per il tifoso del Brest, il tifo non è il corrispettivo per la soddisfazione che dà una vittoria, e men che meno un fraseggio pittorico. L’approssimazione più esatta è forse quella che descrive il tifo per il Brest come un sostegno astratto, spinto anche al di là del suo oggetto. Questa fede illimitata, che si rivolge infatti all’esterno, verso il buio della costa e la vastità dell’oceano, ritorna per qualche strana ragione (forse neanche tanto strana, dal momento che nel più grande sta il piccolo) sulla scena occupata dalle azioni di gioco, dove i calciatori del Brest appaiono sobillati dalle anime della tempesta.
Cedetti senza opporre resistenza al fascino di quelle sirene. Nell’inverno gelido di quell’anno mi avventurai nelle steppe interne francesi, attraverso campi pieni di neve giunsi infine in Bretagna, in quel lembo di terra affacciato sull’oceano che è giustamente chiamato “le bout du monde”. La prima partita cui ebbi l’occasione di assistere fu Stade Brestois 29 contro Paris St. Germain. Per un caso bizzarro, sulla panchina del Paris St. Germain si sarebbe seduto proprio Carlo Ancelotti.
La storia del suo mancato arrivo allo Stade Brestois 29 è già parte del pingue corpus di leggende locali. Appresi in un bar nei dintorni dello stadio, dove fui iniziato ai rudimenti del tifo da un postino alticcio e forse strizzai l'occhio a una scollatura capiente, che la questione fu risolta, per così dire, da uomini. Alex Dupont invitò a cena Carlo Ancelotti in una brasserie sordida e squisita; i pochi giornalisti furono sbattuti fuori dal locale dal proprietario, pescatore e rugbista. Cosa si siano detti è oggetto di svariate congetture. Qualcuno sostiene che si siano sfidati a bere boccali di birra, oppure un liquore selvaggio di queste parti, argomentando dal passo malfermo con cui i due si sarebbero alzati dal tavolo nelle prime ore del mattino, ma forse sono solo dicerie di camerieri. Altri ventilano una rinuncia malinconica di Ancelotti, un arresto sulla soglia di un mistero che deve rimanere precluso.
Quella sera presi posto nelle tribune dello stadio (sebbene non ci sia alcuna differenza tra la tribuna e le curve, il Francis-Le Blè è “solo curva”, su questo fui istruito fin dal principio), voltai le spalle alla partita, e mi intonai a quel coro sincopato e profondo, aereo e ancestrale. Fin dal primo momento, il petto mi si riempì di una passione smodata, dimenticai tutto quello che c’era stato prima, e capii che sarei rimasto lì molto a lungo. Credo che la partita sia finita uno a zero per il Paris St. Germain, con gol di Bisevac al sesto minuto.


Arturo

lunedì 9 gennaio 2012

Diario del tifoso eterno (Parte I: Magma e Cibali)

Devo questo continuo alternarsi di amori a un’insolita trattativa di mercato che si svolse nell’estate del 1998, subito dopo i mondiali di Germania. L’allora giocatore del Marsiglia, Zinedine Zidane, era il calciatore più rinomato del mondo.
L’avventura mondiale non si era conclusa bene per i transalpini, sconfitti in finale da un’odiosissima Italia. In particolare Zidane, dopo aver tirato un rigore con un ghirigoro beffardo, abboccò a una provocazione e abbandonò il campo, forse per non assistere a un epilogo tanto volgare. I commentatori concordarono però nel ritenere memorabile, dei mondiali tedeschi, non la vittoria italiana ma l’esibizione di Zidane nei quarti contro il Brasile, in cui il giocatore di origini berbero/algerine sembrò quasi lui solo sufficiente per sconfiggere undici quotatissimi avversari, rivelando con magie autentiche, che sono quelle che non si vedono, l’inganno insito nell'ostentato palleggio dei sudamericani.
A quei tempi, non avrò avuto più di otto anni.
D’estate, insieme con gli ombrelloni, si aprì un’asta selvaggia tra le squadre più importanti del mondo. Il Real Madrid mise sul piatto, oltre al denaro, l’autorevolezza delle sue undici dozzine di Lighe, la Juventus i suoi (allora) cinquantaquattro scudetti. A lungo i giornali sportivi furono assediati da una snervante serie di annunci e smentite. Improvvisamente, fu lo stesso Zidane a porre fine a questa letteratura scadente, dichiarando in una conferenza stampa -ammantata oggi da un velo di leggenda- di aver raggiunto un accordo con il Catania.
Zidane spiegò, con estrema franchezza, i motivi della sua decisione. L’esigenza che lo aveva spinto alla pendici dell’Etna era legata al suo secondo grande talento. Raffinatissimo percussionista, e studioso di ritmiche computerizzate, Zidane deliziava le platee dei bassi di Marsiglia da almeno un paio d’anni, con il suo gruppo chiamato “I dervisci rotanti” (“Les derviches tourneurs”). Suonavano nei locali che puzzavano di bouillabaisse, in cui la gente di porto si accalcava pianificando arditi traffici notturni. La loro musica era un impasto di generi che qualche critico musicale avveduto definì “artigianato sintetico”. L’aspetto più singolare era dato dal fatto che si trattava senz’altro di una musica da ballo, ma il pubblico rimaneva fermo, stranamente composto. Ciò risultò poi essenziale per comprendere l’estro calcistico di Zidane, che non ebbe mai timore di affermare che la danza è “questione squisitamente interiore” e che il movimento lo lasciava volentieri ai balletti dei teatri lirici. Catania, in quel periodo, rappresentava per l’Italia ciò che Marsiglia era per la Francia, la quintessenza di un mood mediterraneo, un crocevia di musicisti, donna splendida e angiporto. In un tripudio di rossazzurre stelle filanti, Zidane fu presentato dinanzi a un Cibali gremito.
Capite bene che per un bambino innamorato del calcio, nato sulla costa ionica messinese, le buone regole dell’educazione volevano che si dovesse tifare per il Messina e che, se altre squadre erano contemplate, la deroga si giustificava solo per il gusto tutto locale di sottomettersi alle influenze colonizzatrici di volta in volta juventine, milaniste o interiste. Invece, di nascosto ai miei genitori, la domenica mattina, anziché recarmi al “Giovanni Celeste”, uscivo due ore prima per prendere il treno in una piccola stazione dietro il cui ultimo binario c’era solo la spiaggia, e snocciolavo come grani di un rosario tutti i piccoli borghi marinari che precipitano verso il canale di Sicilia, sotto l’ombra confidente del Vulcano e le siepi odorose dei gelsomini.
Ciò che si prova andando allo stadio negli anni della giovinezza è un’emozione che non si ripresenta. A quel trasognato palpitare, tra formazioni immaginarie e prove tecniche di esultanza, si aggiunse per me il senso magnifico di un allontanamento, di una relazione adulterina e segreta. Zidane giocò un campionato straordinario, non si contavano le sue piroette, i lanci precisi, le traiettorie impensabili. L’allenatore del Catania disse che aveva del tutto rinunciato agli schemi: con la lucidità di un giocatore di scacchi, Zidane creava ogni volta lo schema, perché riusciva con il suo (falso, si chiarirà meglio ora in che termini) movimento a orchestrare la squadra, convocando i compagni di squadra sulla zolla esatta del campo, spostando il raggio dell’azione a ogni sua impercettibile finta.
Intanto io fui iniziato da qualche capo ultrà ai panini ripieni di carne di cavallo, alla ricotta iblea servita con marmellata di mandarino. I miei occhi si scontravano coi muri di pietra lavica, seguivano nei vicoli fantasmi di pirati claudicanti, il fiato accelerava sui gradini dello stadio per raggiungere quel posto proibito, segno tangibile del tradimento.
Partita dopo partita, compresi qual era l’assunto filosofico di Zidane. Noi siamo abituati a percepire il movimento soprattutto per gli spostamenti compiuti dal pallone, lanciato da una parte all’altra del rettangolo di gioco. Con la sua impareggiabile capacità di tenerlo incollato ai piedi, Zidane ne neutralizzava il dinamismo, realizzando, se si vuole, un gesto contrario all’essenza stessa del calcio. Il pallone rimaneva sempre fermo, a muoversi in realtà era il giocatore algerino, che creava coi suoi trucchi mille possibilità di movimento, disorientando i calciatori della squadra avversaria. Noi sugli spalti del Cibali eravamo quel pallone: fermi, sospesi in quell’incredulità, danzavamo, come impararono presto a fare nei locali sotto la via Etnea gli spettatori dei concerti di Zidane e del suo gruppo, che presto vantò collaborazioni con i più prestigiosi Maestri della scena musicale catanese.
Il Catania restò in corsa per lo scudetto fino a poche giornate dalla fine, fino alla domenica di maggio in cui Zidane realizzò il suo capolavoro, superando anche la prova contro il Brasile.
Quella domenica la luce della costa ionica sorse appannata. La polvere affaticava l’aria come un presagio, che non tardò a confermarsi nel primo pomeriggio, con la violenta eruzione del vulcano. La partita era importante, uno scontro diretto con la Spal se non ricordo male. I ferraresi, con una massiccia rimonta nel girone di ritorno, ambivano a una delle quattro posizioni che garantivano l’accesso alla Champions League. Tanta era la tensione che lo stadio quasi non si accorse del pericolo: i giocatori seguitarono a giocare e gli spettatori a urlare nella bolgia del Cibali, mentre il fumo si allargava nel cielo e gli scoppi divennero più intensi. La lava si aprì percorsi nuovi e scese minacciosamente verso il centro abitato. Noi la vedemmo entrare dai boccaporti dello stadio, dall’ingresso per la maratona, dal tunnel degli spogliatoi. I giocatori scappavano terrorizzati, aggrappandosi ai pali delle porte, i tifosi si ritrassero sulla cima delle gradinate. Zidane incurante continuò a giocare, il pallone attaccato ai piedi in quell’illusione di movimento. Scansò un rivolo incandescente con un doppio passo e disegnò una giravolta salvando il pallone dalle fiamme. In quel preciso istante, l’incedere della lava, agitato da fremiti ancestrali, si fermò, come ipnotizzato, nello stesso modo in cui lo fu il Brasile e lo fummo noi per tutta quell’incantevole stagione. Il magma si raffreddò nella contemplazione di Zidane, e nel sollievo generale si sentì qualcuno ipotizzare che quella forza oscura e cieca trattenuta in roccia non potesse più avanzare perché, adesso che era immota, dentro di sé stava ballando.


Arturo

domenica 20 novembre 2011

Il gol più bello di tutti i tempi

Il gol più bello di tutti i tempi temevo di non rivederlo mai più, e di continuare a proiettarlo nella mia memoria, ogni volta apportando qualche falsificazione, fino a smarrirne del tutto i tratti e i contorni. Invece ieri, passeggiando pigramente negli archivi digitali, mi si è parato davanti come un’epifania, e mi sono reso conto che non è stato poi troppo diverso da come lo rimasticavo da sempre, aiutato dalla convivialità o da una bottiglia di vino, raccontandolo come un’apparizione fantasmagorica nei cantieri della mia infanzia.
In sintesi, tre sono stati i momenti decisivi della mia educazione sentimentale e calcistica. Il primo mi vuole stregato davanti a un piccolo schermo in bianco e nero, a innamorarmi di Giancarlo Antognoni, tanto che ancora in qualche cassetto conservo alcune foto autografate, sue, di Daniel Bertoni e Daniel Passarella, in cui campeggia al centro della maglia un giglio enorme primi anni ’80. Così -quasi non camminavo- mi misi a tifare per una squadra che certo non giovò agli albori delle mie relazioni sociali, perché dalle mie parti era sconosciuta almeno quanto una compagine della seconda divisione rumena, ammesso che la Romania abbia una seconda divisione.
L’ultimo mi vuole incredulo davanti ai fuochi pirotecnici che Zdenek Zeman accese nel suo breve transito sulle rive dello stretto. Fu l’anno in cui Totò Schillaci segnò valanghe di gol (23 mi pare), pur partendo spesso dalla panchina, per i motivi imperscrutabili noti solo ai silenzi dell’intellettuale boemo. Ovviamente il Messina non salì in serie A, ma l’esperienza dell’incredibile fu nitida per tutta la stagione e culminò con il pareggio interno (in coppa Italia?) 1 a 1 con il Milan di Sacchi, con gol, ecco credo che questo sia il punto, di Pierleoni e Van Basten. Pierleoni e Van Basten. Ancor più stupefacente del fatto che il Messina giocò alla pari, e forse meglio, con quel Milan, è che a segnare furono quei due, l’apollineo centravanti e l’oscuro lavoratore del centrocampo, che Zeman quell’anno trasformò in esterno del 4-3-3 e in una specie di Robinho ante litteram, Robinho che segna, però.
L’intermedio mi vuole abbonato sugli spalti del “Giovanni Celeste” a seguire le gesta del Messina di Franco Scoglio, e fu lì, in una di quelle domeniche invernali sicule in cui la temperatura non scende al di sotto dei dodici gradi, che si consumò il gol più bello di tutti i tempi. Il Messina, neopromosso dalla C1, era in testa alla classifica, mi pare di ricordare che fosse una delle prime partite del girone di ritorno. Ospitava il Taranto e, sospinto da un catino infernale, passò in vantaggio con gol di tale Mossini (in realtà io le sgroppate di Mossini me le ricordo benissimo, ma dico tale per dare una parvenza di distacco, assolutamente fittizia). All’ottantottesimo circa, pareggiò il Taranto con gol di tale Biondo (qui il significante di tale è più aderente al suo significato).
Nei dintorni del novantesimo al Messina fu concessa una punizione dal limite. Il suo fantasista, Peppe Catalano, anziché batterla come i cristiani, cercando di scavalcare la barriera e di mettere la palla all’incrocio (ed era anche bravissimo in questo, come tra poco dirò), scelse un’opzione più suggestiva, resa ancor più suggestiva dal fatto che non c’era più tempo, era il novantesimo. Secondo le antichissime consuetudini del c.d. calciatore di “ciumàra” (per calciatore di “ciumàra” si legga calciatore che gioca o quanto meno si forma nei greti inariditi dei torrenti meridionali, utilizzando come pali lavastoviglie dismesse e come linee colline di detriti argillosi), Peppe Catalano, che era un talento cristallino, con ogni probabilità disse al compagno di squadra “compàre, dàmmela qua” e invece di tirare, entrò letteralmente dentro la barriera, ne uscì indenne palla al piede, avanzò ancora un poco, tirò e scosse le fondamenta dello stadio.
Rivedendolo ora, non è del tutto esatto che entrò dentro la barriera, perché fu facilitato dal fatto che i giocatori del Taranto ne disposero una rudimentale, forse perché la punizione non era dal limite, era un po’ dietro, ma insomma, il concetto mi pare più o meno lo stesso.
Non che non fossi avvezzo alle sue prodezze (sicuramente nei bar di Messina Sud suo capolavoro è reputato il gol del 6 a 0 al Monopoli nel campionato di C1; a me invece piace ricordare la sua specialità, cioè la punizione laterale, quasi dalla lunetta del corner, che invariabilmente riusciva a recapitare all’incrocio dei pali opposto, cosa che non mi è più capitato di rivedere, almeno compiuta con intenzione), e non che non fossi avvezzo alle prodezze di altro giocatore lunare che fu Franco Caccia, uno che, per intendersi, batteva gli angoli di esterno destro, ma quel gol contro il Taranto mi parve, e mi pare tuttora, la summa di un calcio fiabesco e, insieme, un gesto irripetibile (qualcosa di simile l’anno scorso, il gol di Lavezzi al Milan).
Peppe Catalano fu acquistato poi dall’Udinese e fuori dal suo contesto, minato anche dagli infortuni, perse il tocco e forse la magia. Chiuse la sua carriera nell’Akràgas, squadra per cui io stravedo, non foss’altro per il nome dello stadio, Esseneto, e per il fatto che milita in una divisione onirica, in cui si contende la gloria con le più importanti compagini del mondo, tra cui Corinto, Delfi e Cartagine.
Oggi credo che alleni il Favàra, in eccellenza, e nel suo percorso a ritroso intravedo qualcosa della voluttà sicula (lui è lucano, ma non si offenderà se qui lo considero siculo d’adozione) di ripiegarsi nei cristalli della marmellata di mele cotogne, nel profumo dei gelsomini, nell’ebbrezza stordente della caponata, quello stesso ripiegarsi che induce le squadre siciliane, con la lodevole eccezione di Catania e Palermo, a cedere alla seduzione del fallimento e a ricominciare sempre dal nulla, dal campo di sabbia, dalla miseria e dalla scaramanzia.


Se a qualcuno fosse venuta la curiosità, il gol più bello di tutti i tempi è possibile vederlo da qui. ;)


Arturo

sabato 5 novembre 2011

Contra Pantaleaeum

German "El tanque" Denis



Santiago "El tanque" Silva


Arturo

lunedì 25 luglio 2011

Non vedo, non sento, non parlo

Non c’è che dire il calciomercato ha subito una metamorfosi notevole negli ultimi anni. Colpa dei media, colpa del fatto che ormai scovare un video su youtube dell’ultima “pseudo-scoperta” è così facile che tutti sembrano conoscere ogni aspetto tecnico di qualunque calciatore abbia calcato un campetto di calcio sito nel posto più remoto del pianeta. Era divertente, 5 anni o meglio 10 anni fa, leggere i giornali estivi e conoscere (il più delle volte poco prima della firma) che questa o quella squadra aveva preso quel talento portoghese magari sconosciuto ai più, piuttosto che un giovane britannico le cui gestae nella penisola erano ancora poco note.E che bello era guardare le prime amichevoli (che venivano trasmesse perlopiù a fine agosto) prime occasioni per scrutare i nuovi volti che avrebbero fatto sognare o dannare la stagione in procinto di iniziare. E non potevamo che affidarci alle analisi di quei pochi inviati (e veri giornalisti!) che avevano la fortuna di assistere a qualche amichevole, vedere i lenti progressi tattici, assistere e riportare dell’evoluzione che ogni bravo allenatore sa imporre alle proprie compagini.Da questa fase “oscura” o forse intellettuale della gestione del calciomercato e del calcio estivo, riservata ai più istruiti, a chi aveva avuto modo di scrutare su emittenti minori qualche gioellino di mercato, si è passati ad una fase più mediatica fatta di maggiori chiacchiere, tanti rumors, svariate trasmissioni ed innumerevoli servizi volti ad indagare strategie ed a suggerire ipotesi, ma pur sempre in un ambito ancora velato. C’erano ancora i Moggi, i Galliani, i Baldini che dicevano mezza parola (sempre falsa e tendenziosa) e poi, senza che alcun giornalista avesse ipotizzato l’operazione annunciavano i vari Ibrahimovic, Emerson, Pirlo o Chivu.Oggi si assiste ad un fenomeno che, a mio modesto avviso ha del ridicolo, tutti parlano, pianificano pubblicamente strategie, budget e desiderata. Trovo assurdo che un direttore sportivo navigato come Sabatini annunci pubblicamente che un giocatore come Vucinic sia in vendita (e non per scelta della società), come ridicole sono le conferenze di Marotta che sembra sempre pronto a giustificare e spiegare ai tifosi come vuole investire, chi vuole vendere e di quanti denari dispone. Tutta questa (dis)informazione ha reso questo periodo dell’anno solo una triste parentesi in attesa dell’inizio dei giochi… tanto tutti parlano, tutti straparlano, tutti millantano questo e quello e poi il mercato lo si fa il 31 di agosto e di sorprese ormai neanche a parlarne! Buona estate….

domenica 3 luglio 2011

Qualcuno accedna la luce... per favore!

Le annate passano, ma le idee non fermentano. La nuova campagna acquisti del buon Marotta mi sembra ben poco lineare, o meglio completamente slegata da un filo conduttore specie in cosiderazione di quella della passata stagione.

Giusta l’idea di sistemare le fasce difensive, ma 10 ml. per Lichtsteiner - non oso pensare a quanto se la starà ridendo Lotito (!) - sono obiettivamente troppi (lo svizzero è un buon giocatore, ma non azzecca un cross manco per sbaglio!), l’idea di Pirlo potrebbe rivelarsi interessante, ma continuo a ritenerlo poco adatto al modulo di Conte. Pazienza??? ma per favore dai…. che senso ha? Come che senso ha cercare Inler e poi ripiegare (o virare se preferite) su Vidal, due buoni giocatori, intendiamoci, ma così diversi come Hamsik e Boateng… come dire sono indeciso tra una Enduro ed un Chopper!

In attacco poi arriva la ciliegina: se è Aguero che vuoi vai e compralo, ma prima che inizi la “Copa America”, non ha senso rischiare che un goal o una buona prestazione dell’argentino ne modifichino il prezzo… io sono ormai convinto che il Kun andrà altrove (e probabilmente non è neppure un male per la Juve), ma un operatore saggio, a questo punto avrebbe chiuso (in silenzio ed in fretta), con gli stessi soldi, con Rossi e Vucinic…. ma se ti esponi come si è esposto il buon Marotta, tutto diventa maledettamente complicato…. rimpiango un direttore come Sabatini, la Roma si muove in silenzio, con idee nuove (forse rischiose), ma nuove e con una linea di condotta segnata… alla Juve si brancola nel buio… vediamo se qualcuno saprà accendere la luce… o almeno individuare l'interrutore!