mercoledì 15 settembre 2010

Curvature nella memoria

Per molto tempo, ho pensato che il calcio fosse un ottimo antidoto alle conversazioni su Wittgenstein. Bisogna immaginarsi il contesto: un salotto, meglio se di sinistra; una discussione accorata su problemi profondi; idee incastonate nelle loro montature di discorsi salubri; e poi (come direbbe Giorgia), in un disperato tentativo di sospensione, introdurre, con un vero e proprio tackle concettuale, l'elemento Francesco Totti (ma anche Cambiasso potrebbe andar bene, visto che siamo in tema di tackle).
Dopo la retorica patriottarda occasionata dal mondiale (ma non si potrebbe fare ogni quaranta anni invece che quattro?), dopo la pantomima del calciomercato, comincio invece a pensare che Wittgenstein sia un ottimo antidoto alle conversazioni sul calcio (in particolare, la proposizione n. 7, come la maglia, del Tractatus, e non nella banale vulgata secondo cui se non si sa ciò di cui si sta parlando è meglio stare zitti: il calcio appartiene o non appartiene alla sfera del mistico?).
Totalmente demotivato, lo scorso sabato sera guardavo non so quale semifinale dell’Open degli Stati Uniti. A un cambio di campo, ho fatto un’escursione sul telecomando e mi sono imbattuto in Cesena-Milan, che si sa quanto è finita. A parte l’ilarità per il rigore sbagliato da Z. Ibrahimovic (un nome e un cognome, per favore, non il nomignolo), a parte la solidarietà umana a F. Caressa, che si vede proprio che gli dispiace quando la squadra che dovrebbe vincere cinque a zero non vince cinque a zero, a parte la triste considerazione per cui il Milan sta diventando l’Inter e l’Inter sta diventando il Milan, mi sono ricordato che, agli albori del mio interessamento calcistico, la mia squadra di allora, per pura casualità geografica il Messina, tornava sempre dal “Dino Manuzzi” con almeno due gol sul groppone.
In genere, si dice che il pubblico sia il dodicesimo uomo in campo. In realtà, se un dodicesimo c’è, non si tratta del pubblico, bensì dello stadio. Che non si tratti del pubblico, quello della Roma ne è controprova. Per quanto mi riguarda, basterebbe la canzone di Venditti perché l’arbitro emetta subito il triplice fischio e dia la vittoria d’ufficio alla squadra di casa. E invece le cose all’Olimpico girano quasi mai per il verso giusto (basti pensare all’epilogo dello scorso campionato).
Lo stadio del Cesena è uno di quegli stadi in cui, effettivamente, la palla può andare in porta da sola. Bisognerebbe parlarne con qualche premio Nobel, ma con ogni probabilità è un effetto che dipende da un fenomeno di curvatura dello spazio. Concorrono a questa curvatura vari elementi.
Innanzi tutto, le dimensioni. Lo stadio, per ottenere quell’effetto, deve essere piccolo. Non piccolo in senso assoluto, esistono stadi enormi che sono comunque piccoli. Raccolto è forse la parola adatta. Non ci deve essere la pista d’atletica, questo è chiaro, ma soprattutto l’andamento degli spalti non deve procedere in larghezza, se no lo stadio è buono solo per le amichevoli della nazionale o per un concerto di Ligabue. Angusto e verticale, lo stadio deve comunicare, architettonicamente, alle ordinarie leggi della fisica che nel suo spazio loro non entrano.
In secondo luogo, il tipo di tifo. Stadi del genere escludono in partenza il tifo cartesiano (tifo per questa squadra perché vince o ha vinto molto), il tifo Woody Allen (tifo per questa squadra perché mi ci identifico e ne posso parlare alla ragazza che non conquisterò perché la ammorbo con queste stronzate), il tifo complessato, a ben guardare una variante del precedente (tifo per questa squadra perché è vittima del sistema, arbitri venduti a quelle merde dei gobbi, per citarne uno a me vicino), il tifo estetizzante (tifo per questa squadra perché pratica la bellezza del calcio), il tifo radical-chic (tifo per questa squadra perché non è di un magnate brutto e cattivo). Stadi del genere ammettono solo il tifo dionisiaco: il delirio puro, inconsapevole, che celebra un rito misterico.
In terzo luogo, il rumore. In questi stadi non si sente un brusio di sottofondo, né un’altalena nervosa di silenzio e singulti. Si sente solo un unico, ininterrotto, frastuono. Per dirla con il mio manuale di fisica purtroppo mai aperto, il rumore è la quarta dimensione, il tappo che si chiude sul cratere, è il limite, il lasciate ogni speranza voi che entrate.


Arturo

8 commenti:

eddie ha detto...

Ben tornato Arturo! ;)

el señor dionigi ha detto...

Hai ragione Arturo, su tutto. E' sempre un piacere leggerti.

el señor dionigi ha detto...

In realtà c'è una cosa su cui non sono d'accordo: le piste d'atletica. Non è tanto una questione oggettiva (senza piste la partita si vede sicuramente meglio), nè solo soggettiva (non è che, in sè, mi piacciano particolarmente). E' come se sentissi che le piste d'atletica devono esserci. Ecco, io alle piste d'atletica dell'Olimpico non rinuncerei mai, perchè altrimenti dove correrebbero i giocatori dopo il gol? E' in quello spazio tra la porta e la curva che racchiudo tutto il misticismo del pallone cui tu alludi...

sigosiendobostero ha detto...

Bellissima la considerazione sul rumore, Arturo.

Sulle piste, assolutamente contrario. Lo dico perchè è da quando sono nato che non capisco se abbiano segnato o meno sotto la S. Luca. Che poi da noi c'è pure uno strano fossato, messo lì a caso. Ecco, fossato e pista sicuro sono direttamente collegati al discorso del rumore e al fattore dodicesimo uomo in campo. L'Olimpico e il S. Paolo sono un'eccezione, ma pensiamo ai vari S. Nicola, Delle Alpi o, appunto, Dall'Ara.. è sufficiente che non siano esauriti perchè si trasformino in quanto di più freddo al mondo.

Lo stadio lo concepisco monouso. Modello Stati Uniti o Inghilterra o Australia. Altrimenti non è tempio.

Luca ha detto...

Affascinante dissertazione, caro seguace dei ragazzi di Mihailovic.
Delle numerose variabili che rendono il gioco del calcio dannatamente bello, la rilevanza del fattore campo mi ha sempre stupito. Non c'è dubbio che la psicologia, in senso lato intesa, incida notevolmente sulla prestazione del singolo e quindi della squadra. E questo vale per qualsiasi sport. Tuttavia mi sfugge come possa lo stadio, con esso intendendo tifoseria e struttura, determinare alterazioni così profonde nell'andamento di alcune squadre. Esistono vistose eccezioni, d'accordo, ma non occorre un'enciclopedia del calcio per notare statistiche clamorose, andamenti da primato assoluto o da papabile retrocessione esclusivamente in ragione del prato verde: una giornata casalingo, la seguente ostile. Stessi 11 in campo e stessi avversari. Che sia questione geografica? Può essere che i calciatori abbiano una sensibilità ipersvisviluppata alle variazioni di latitudine, longitudine e altitudine? Battute a parte, sono pulsioni interiori, motivazionali, e non questioni di dettaglio. Del resto "il calcio" non necessita di grandi appendici tecniche: un campo, un pallone e voglia di correre possono essere sufficienti. A Pepe è bastata tantissima voglia di correre per essere ingaggiato dalla Juventus.
Anzi, sotto molti aspetti il calcio ha serbato intatta la propria essenza, non permettendo alla tecnologia ad esso appicata di alterare significativamente gli schemi di gioco, fatta eccezione per la monitorizzazione dell'evento con i noti effetti collaterali.
Per adesso anche il prato resiste al 100% naturale, benché rizollato.
Si tratta allora di atmosfera, di
una sorta di rito misterico propiziatorio reso possibile dall'incontro di alcune tifoserie con determinati templi calcistici.
E, comunque, non mi capacito di come siffatta variabile possa comportare risultati così estremi.
Probabilmente l'astinenza dai "grandi" stadi non mi permette di comprendere a pieno il fenomeno, abituato come sono (poco, per la verità) allo Stadio dei Pini, un aborto spontaneo, un non-finito privo, che io sappia, della dignità riservata all'omonima corrente artistica: monco delle curve, con due strutture architettoniche in cemento autostradale parallele ed asimmetriche, non ripide e troppo, troppo distanti dal campo, separate dall'immancabile pista di atletica oltre che dalle indecenti barriere protettive. Altro che boato e spettacolo puro (vabbé che non ci gioca il Real Madrid :-))
Capitolo a parte andrebbe poi dedicato a questa oscena peculiarità degli stadi nostrani: le gabbie per le bestie.

Unknown ha detto...

La pista d'atletica mi lascia qualche perplessità. Vero è che la corsa del calciatore che ha appena segnato segna la rottura della finzione scenica. Vero è anche che, come tutti i luoghi di transito (e separazione, a proposito di mistico), racchiude in sé un grande fascino, se intesa in questi termini. D'altra parte, se penso agli stadi inglesi che ricorda Bostero, è lì che intravedo la collocazione naturale del c.d. dodicesimo uomo. Non c'è esoterismo, ma c'è la dissoluzione in un rito collettivo (senza pista d'atletica, il calciatore sembra tuffarsi direttamente nel pubblico; mani invisibili, sguardi magnetici, potrebbero influire sulle traiettorie).
Se fosse vera la tesi gravitazionale, le differenze di rendimento tra partite casalinghe e non non sarebbero poi così bizzarre: cambierebbero proprio i termini di riferimento. Poi, come tu giustamente dici, L., nel calcio contano molto i paesaggi interiori. Ma non c'è molto da stupirsi che siano legati a doppio filo a una collocazione geografica.
Non capisco proprio, infine, come tu possa sottovalutare una bolgia come lo stadio dei Pini. Io tremo tutte le volte che ci passo al fianco. Lui è lì, invalicabile, pronto a ospitare le partite che merita: Viareggio-Manchester Utd., Viareggio-Dinamo Kiev. Ti immagini, Ferguson in infradito in darsena, a mangiare gli spaghetti allo scoglio, altro che rottura della finzione scenica..

Luca ha detto...

Gli UFV (Ultras Fighters Viareggio) sarebbero entusiasti del tributo che hai dedicato al loro stadio, famoso più per i concerti di Zucchero che per le
prestazioni delle zebre..
Beh, visto che il tema pista va per la maggiore, io aderisco alla fazione del no.
Per la collocazione spaziale e per la diffusione del suono, o meglio del frastuono.
E poi, come dici tu Arturo, è questione di fisicità: negli stadi inglesi, all'esplosione del goal sembra che una mareggiata scomposta debba rompere gli argini e riversarsi sul rettangolo di gioco. Commistione di corpi o distinzione dei ruoli. Un po' come The Wall, che separa artisti e spettatori, intatto o demolito, delle due l'una.
Ah, sarà un piacere accompagnarti ad udire il ruggito del Torquato Bresciani (detto "Dei Pini") alla prossima Coppa Carnevale, magari per un succulento Fiorentina-Inter di giovani promettenti.

Montgomery Custom Closets ha detto...

Verry nice blog you have here