lunedì 24 maggio 2010

Appunti di geografia calcistica (parte III-bis)

Mentre come non mai la storia imprimeva il corso degli eventi sulle magliette dei calciatori, la fama di Valerij Lobanovs'kyj crebbe fino al punto di suscitare veri e propri pellegrinaggi di studio nella sua Kiev, da parte di allenatori occidentali che avrebbero e non avrebbero cambiato il modo di intendere il gioco del calcio.
La leggenda vuole che tra i valorosi studenti, intorno alla metà degli anni ottanta, ci furono due allenatori di squadre allora emergenti nel campionato italiano di seconda divisione, Arrigo Sacchi, allenatore del Parma (e di lì a poco del Milan), e Francesco Scoglio, allenatore del Messina (e di lì a poco del Genoa: ognuno ha il suo destino).
Ora, lo so che è fuori tema ma a me questo aneddoto ha fatto sempre pensare all'arrivo di Totò e Peppino a Milano in "Totò, Peppino e la Malafemmina" (di C. Mastrocinque, 1956). Mi sono sempre immaginato Scoglio e Sacchi sotto due colbacchi (che fa pure rima), in un freddo simil-polare, a scrivere una surreale lettera di presentazione in russo maccheronico al colonnello Lobanovs'kyj, perché li rendesse edotti della sua sapienza tattica.
Dopo il collasso dell'Unione Sovietica, Valerij Lobanovs'kyj trascorre sei anni tra Emirati Arabi e Kuwait, giusto per potersi addossare qualche accusa di tradimento o cedimento al vile denaro. Torna alla Dinamo Kiev nel 1997, e l'Europa si ricorda della sua faccia impassibile in una doppia sfida con il Barcellona nel girone eliminatorio di Champions League: tra Ucraina e Catalogna, sette a zero per la Dinamo Kiev.
A Kiev, sale sugli scudi il piccolo Serhij Stanislavovyč Rebrov; a Barcellona, Andrij Mykolajovyč Ševčenko, con una memorabile tripletta. Sui filmati reperibili in youtube, si può ammirare la statuaria esultanza di Lobanovs'kyj, del tutto immobile se non per un impercettibile movimento del sopracciglio, analogo a quello di Carletto Ancelotti quando, negli ottavi di finale dell'ultima Champions League, negarono a Kalou un rigore vasto quanto un fuorigioco di Klose.
Andrij Ševčenko fu per Lobanovs'kyj l'equivalente di Blochin negli anni novanta: rapido, tecnico, essenziale, educato. Da quel battesimo indimenticabile, il giovane delfino del Maestro ha spesso incantato le platee del calcio europeo, con la sua eleganza di ballerino consapevole della necessità di essere inserito in un corpo di ballo, mai arrogante come un solista (l'anno successivo, Ševčenko fu capocannoniere della Champions League, con otto reti, mentre Rebrov si fermò a sette: ma non bastò alla Dinamo, che fu eliminata in semifinale dal Bayern Monaco).
Dopo questa breve incompleta panoramica sul calcio russo (impropriamente riferendoci ancora all'antica estensione geografica) viene da chiedersi da cosa dipenda l'incostanza del rendimento delle squadre ex-sovietiche, che le rende (e le ha sempre rese) capaci allo stesso tempo di prestazioni maiuscole e tracolli dilettantistici. Questo alternarsi di sublime e ridicolo stupisce forse ancor più perché non smettiamo di considerare il calcio russo come qualcosa di esotico, una specie di fùtbol bailado intirizzito dal freddo, di cui stentiamo a penetrare i meccanismi.
Volendo avanzare un'ipotesi, potrebbe essere un problema di spazio. Sia gli splendori che le miserie del calcio russo sembrano derivare da un rapporto peculiare con il proprio spazio vitale, tutto sbilanciato nell'anima a favore di quest'ultimo, con la sua vastità, il suo rigore, i suoi impenetrabili silenzi. Ciò che per i calciatori occidentali era un metro, per i russi era un chilometro, nel campo e nel cuore. Quando riuscivano a costringere nel rettangolo la loro capacità di organizzare l'immenso, tangibile anche in letteratura, davano l'impressione di trascinare le squadre avversarie nei loro territori infiniti, in cui erano e sono gli unici capaci di correre. Le volte in cui il miracolo non riusciva sembravano invece inciampare nel loro difetto di proporzione, passare la palla al vuoto, o meglio al fantasma di chi avrebbe dovuto esserci ma non c'era, perché nessuno si trovava e poteva trovarsi, nel piccolo, troppo enorme, catino del campo di gioco.
Come nella finale degli europei del 1988, in cui la Russia allenata da Lobanovs'kyj, dopo aver ridicolizzato l'Italia in semifinale, svanì di colpo di fronte all'arrembante Olanda di Gullit e Van Basten (suo lo straordinario gol del due a zero). Il volto del grande Valerij non tradì neppure allora alcuna emozione. Di certo sapeva, però, che quell'Olanda giocava il calcio che lui aveva inventato, molti anni prima, nei suoi laboratori battuti dal vento.

Arturo

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