martedì 1 febbraio 2011

Fisiognomica

Da una parte c’è il rampollo di una famiglia ebrea della middle-class newyorkese, che disfa la sua identità sui marciapiedi e nelle mansarde ispirate della città, dedito a ogni eccesso sessuale, al travestitismo, sedotto da intellettuali satiri, ferocemente aggrappato a una chitarra elettrica che graffia e distorce su pareti di violino. Nessuno lo avrebbe mai detto somigliante in vecchiaia al primo allenatore italiano della nazionale di calcio inglese, uomo di regime, monogamo e fedele, di cui l’unico eccesso ipotizzabile è la passione per l’arte contemporanea.
Da una parte c’è il ragazzo di San Canzian d’Isonzo, mento squadrato e temperamento schietto, già adulto nel rincorrere il pallone sui prati del Friuli. Si intuisce che per lui non c’è educazione possibile al di fuori della disciplina, e c'è una linea che, se oltrepassata, consente di mettere le mani sul collo di un uomo. Nessuno gli avrebbe smorfiato il destino di scambiarsi i tratti in futuro con una roca leggenda della musica pop, declamatore di E.A. Poe, sopravvissuto a se stesso e ai suoi miti.
Fabio Capello è il più simpatico degli antipatici. C’è nella sua linearità senza fronzoli il retaggio di una disposizione concreta alla vita, che gli rende del tutto indifferente la bandiera sotto cui svolgere il mestiere in cui eccelle. Il mercenario è, infatti, tanto più nobile quanto più se ne frega. Per lui conta solo fare al meglio ciò per cui si è pagati. Si sa che potrebbe passare in ogni momento dalla parte di chi lo metta nelle condizioni migliori per lavorare. Il gioco è chiaro, ogni romanticismo è una sovrastruttura.


Me lo ricordo, una volta che comprai un biglietto da un bagarino al quadruplo del suo prezzo: tutto lo stadio, e che stadio, lo odiava, ma lui stava per vincere la sua seconda Liga, con il suo non bel gioco, con il suo do ut des, con la sua freddezza di commerciante. Parafrasando uno scrittore spagnolo, bisogna sempre diffidare degli allenatori che non chiedono soldi per la vittoria, perché non si sa mai cosa potrebbero chiedere in cambio.
Anche se poi è andato ad allenare la Juventus, come se nulla fosse, è stato l’artefice dell’unico evento significativo del calcio italiano degli ultimi venti anni, la vittoria dello scudetto con la Roma (al pari della vittoria della Lazio l’anno prima, sebbene io sia un convinto sostenitore della tesi secondo cui Lazio, Inter e Juventus non hanno, in astratto, alcuna ragione di esistere). Nel 1973, anno in cui Lou Reed pubblica uno dei suoi capolavori, Berlin, Capello segna lo storico gol decisivo nella vittoria dell’Italia a Wembley. Queste sono le gemme di una carriera solida come la sua tempra, rassicurante come la noia fertile in cui mi immergerei in una discussione con lui e il suo amico Edy Reja, su come non si butta il pane raffermo, sul tempo della semina e su quello del raccolto, sul tempo e basta, che è solo quello trascorso, mai quello che verrà.
Durante la conversazione, con il timore reverenziale che avrei nel discutere col generale combattuto in mille guerre da soldato semplice, gli domanderei se conosce Lou Reed, l’uomo cui il tempo ha dipinto lo stesso disegno sul volto. Cosa hanno in comune due vite così diverse, per portare alla stessa malinconia.


Arturo

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