martedì 7 febbraio 2012

Diario del tifoso eterno (Parte II: Stade Brestois 29)


“Essere primi mi sta sulle palle, ma godiamone senza limiti”
Alex Dupont


A fregarmi la seconda volta è stato il biliardo. Non nel senso del biliardino, sport peraltro di eccelso lignaggio, ma il biliardo vero e proprio, quello che si gioca coi birilli e le stecche.
Nei sotterranei siciliani abbondano corridoi illuminati di luce al neon, che si affacciano sulle cantine delle case. In ogni cantina si pratica un diverso gioco d’azzardo, l’attività non conosce soste, variano i partecipanti, ma ciascun siciliano che si rispetti sa che per astrarsi dalle noie del quotidiano basta suonare un citofono e scendere pochi gradini di una scala. Così rimette in moto la sorte; talora si affida alle carte, altre volte insegue le traiettorie delle biglie verso le buche o i cinque birilli disposti in croce, uno rosso centrale e quattro bianchi attorno, nella variante denominata “all’italiana”.
Durante una mia temporanea fuga dalla realtà -impareggiabile è il biliardo come strategia per marinare la scuola- mi capitò di ascoltare un discorso sul calcio tra i giocatori del tavolo accanto. Entrambi erano di origine straniera, poteva trattarsi di marinai di passaggio che qualche frequentatore del porto aveva indirizzato al biliardo per ingannare le ore dello sbarco. Uno di essi aveva un nome bizzarro che non riuscii a ben distinguere, il suono finiva in “elle”, fu proprio da lui che sentii per la prima volta parlare dello “Stade Brestois 29”.
L’anno precedente, lo “Stade Brestois 29” -o, più comunemente, il Brest- aveva suscitato il pigro interesse delle testate sportive francesi più accreditate. Una squadra di sconosciuti aveva condotto la classifica del campionato per tutto il girone d’andata, per poi declinare, come ovvio, nella parte finale della stagione.
Nell’anno in corso, si era molto parlato di un avvicinamento di Carlo Ancelotti alla panchina del Brest. Cosa avesse potuto spingere un allenatore di indubbia fama, vincitore di campionati nazionali e coppe europee, inventore di Pirlo, a considerare un’ipotesi di lavoro così marginale era appunto il tema della conversazione che seguivo da un tavolo all’altro nella penombra della sala da biliardo.
I marinai sostenevano che Ancelotti, uomo dalla curiosità inappagabile, fosse attratto dalle voci strane che circolavano intorno alla squadra, legata da un’assiduità quasi religiosa, se non familiare. Era noto che l’allenatore in carica, Alex Dupont, aveva imposto la regola della prima colazione comune e del doppio allenamento quotidiano a qualsiasi costo, anche nel mezzo delle severe tempeste che si abbattono sulla costa bretone.
A questa rigidità faceva da contraltare una libertà quasi complice lasciata nella vita di tutti i giorni: non era infrequente, nel racconto dei marinai, trovare i calciatori a bere birra con la gente del porto o a corteggiare le licenziose fanciulle locali.
Sebbene prodighi nelle cose terrene, i calciatori del Brest non si risparmiavano neppure in fatto di devozione, riconoscendo autorità spirituale assoluta al loro capitano, Oscar Ewolo, nativo del Congo, difensore e pastore protestante.
Doveva essere questo impasto di sensualità e spirito, unito al fascino di quei luoghi così estremi, delle rovine di Carnac, con le memorie druidiche e i crostacei succulenti, a destare l’interesse di Carlo Ancelotti.
Ma ciò che destò il mio di interesse fu il legame, anch’esso quasi religioso, che univa la tifoseria del Brest alla squadra. Per la verità, la parola esatta, ben lungi da unire, dovrebbe essere dividere: per quanto lo stadio Francis-Le Blé fosse rinomato per essere il più assordante dell’intero campionato francese (“un frastuono né animale né metallico, un rimbombo di vento piuttosto, sembra di giocare non sulle rive dell’oceano, ma già sopra, in costante rollio”, ebbe a scrivere un intimorito avversario), i tifosi del Brest tenevano un contegno assai singolare, che consisteva nel (non) assistere alla partita voltati, dando le spalle al rettangolo di gioco.
Sul significato esatto di questo comportamento sono stati versati fiumi di inchiostro, ma nessuna ricostruzione è apparsa finora esaustiva. Di certo, c’entra il disinteresse per il risultato, e anche per il bel gioco. Per il tifoso del Brest, il tifo non è il corrispettivo per la soddisfazione che dà una vittoria, e men che meno un fraseggio pittorico. L’approssimazione più esatta è forse quella che descrive il tifo per il Brest come un sostegno astratto, spinto anche al di là del suo oggetto. Questa fede illimitata, che si rivolge infatti all’esterno, verso il buio della costa e la vastità dell’oceano, ritorna per qualche strana ragione (forse neanche tanto strana, dal momento che nel più grande sta il piccolo) sulla scena occupata dalle azioni di gioco, dove i calciatori del Brest appaiono sobillati dalle anime della tempesta.
Cedetti senza opporre resistenza al fascino di quelle sirene. Nell’inverno gelido di quell’anno mi avventurai nelle steppe interne francesi, attraverso campi pieni di neve giunsi infine in Bretagna, in quel lembo di terra affacciato sull’oceano che è giustamente chiamato “le bout du monde”. La prima partita cui ebbi l’occasione di assistere fu Stade Brestois 29 contro Paris St. Germain. Per un caso bizzarro, sulla panchina del Paris St. Germain si sarebbe seduto proprio Carlo Ancelotti.
La storia del suo mancato arrivo allo Stade Brestois 29 è già parte del pingue corpus di leggende locali. Appresi in un bar nei dintorni dello stadio, dove fui iniziato ai rudimenti del tifo da un postino alticcio e forse strizzai l'occhio a una scollatura capiente, che la questione fu risolta, per così dire, da uomini. Alex Dupont invitò a cena Carlo Ancelotti in una brasserie sordida e squisita; i pochi giornalisti furono sbattuti fuori dal locale dal proprietario, pescatore e rugbista. Cosa si siano detti è oggetto di svariate congetture. Qualcuno sostiene che si siano sfidati a bere boccali di birra, oppure un liquore selvaggio di queste parti, argomentando dal passo malfermo con cui i due si sarebbero alzati dal tavolo nelle prime ore del mattino, ma forse sono solo dicerie di camerieri. Altri ventilano una rinuncia malinconica di Ancelotti, un arresto sulla soglia di un mistero che deve rimanere precluso.
Quella sera presi posto nelle tribune dello stadio (sebbene non ci sia alcuna differenza tra la tribuna e le curve, il Francis-Le Blè è “solo curva”, su questo fui istruito fin dal principio), voltai le spalle alla partita, e mi intonai a quel coro sincopato e profondo, aereo e ancestrale. Fin dal primo momento, il petto mi si riempì di una passione smodata, dimenticai tutto quello che c’era stato prima, e capii che sarei rimasto lì molto a lungo. Credo che la partita sia finita uno a zero per il Paris St. Germain, con gol di Bisevac al sesto minuto.


Arturo

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