In una delle citazioni che si trovano nella pagina di Wikipedia su Diego Armando Maradona, sta scritto:
“Il più grande campione che ho visto giocare è Diego Armando Maradona. Credimi, figlio mio, non esisterà mai più, nei secoli dei secoli, un altro come lui” (Darwin Pastorin).
Per chi appartiene alla leva calcistica del 1978, i primi ricordi su Diego Armando Maradona dovrebbero collocarsi in certi dopo pranzo estivi del 1982, quando attorno alle televisioni, alcune ancora in bianco e nero, gli adulti si radunavano per assistere ai Mondiali di Spagna.
Allora si seppe che contro l’Italia, in una specie di gironcino preliminare alle semifinali, avrebbe giocato, con la maglia dell’Argentina, un giocatore molto pericoloso.
Gli adulti spiegarono che tale Maradona sarebbe stato marcato a uomo, cioè seguito passo passo per tutta l’estensione del campo, da Claudio Gentile, difensore e bandiera della Juventus. Questo, a loro dire, era l’unico modo per tentare di vincere.
Claudio Gentile aveva la stessa faccia di suola (con baffi annessi) di certi commissari che si possono trovare in film epocali come “Milano odia, la polizia non può sparare”, “Torino violenta”, “Il giustiziere sfida la città”.
Con zelo e ferocia degni dell’ispettore Callaghan, in effetti, Gentile si attaccò alle caviglie di Maradona per novanta minuti, buttandolo a terra ogniqualvolta la palla fosse in avvicinamento. Neutralizzato il numero dieci, l’Argentina era una squadra abbordabile e l’Italia, come è noto, vinse la partita.
Poi c’è un catino di centomila anime che lo vede palleggiare costretto in un paio di jeans, perché il presidente del Napoli, nel 1984, era riuscito a comprarlo dal Barcellona.
Poi i ricordi si fanno più nitidi, e l’ascesa e il declino costituiscono ormai memoria collettiva. Ci hanno fatto film, scritto canzoni, alcune immagini sono assurte al rango di spot-momenti di gloria, tipo la famosa accoppiata gol di mano/gol più bello (così si dice) della storia del calcio nel quarto di finale dei Mondiali in Messico del 1986 contro l’Inghilterra.
Dunque è difficile aggiungere, oggi, qualcosa su Maradona.
C’è però un momento, appena meno noto degli altri, che è, forse, abbastanza rappresentativo del significato di Diego Armando Maradona nella storia del mondo.
Nel campionato 1985/1986, la Juventus iniziò vincendo le prime otto partite. Alla nona, fu ospitata dal Napoli, in un acquitrino che era anche una bolgia. Finì uno a zero per il Napoli, grazie alla punizione di Maradona da dentro l’area di rigore.
Forse è stato il più grande perché ha incarnato uno dei rari casi in cui succede l’impossibile. In quel momento c’è tutto: la sconfitta della squadra più forte di quegli anni, la più titolata tra le italiane; il delirio di una città disabituata, in ogni senso, alla vittoria; un gesto tecnico probabilmente irripetibile, che a raccontarlo non ci si crederebbe.
Forse è stato il più grande perché con lui l’elemento dionisiaco entra nello sport, capovolgendo le logiche comuni, vincendo dove non si sarebbe dovuto (e potuto) vincere, a Napoli, ma anche in Messico, dove Maradona praticamente da solo conquistò il campionato del Mondo, giocando in una squadra di gran lunga inferiore alle concorrenti.
Se si guarda oggi l’amabile Cristiano Ronaldo, con i suoi muscoli luccicanti di jet-set, non c’è alcuno stupore nel constatarne i successi. Ma da quell’impasto di voglie e follia, quasi sempre in sovrappeso, sangue disperato e ossessivo, da quella malata allegria, da quel sovvertimento di ordine, non ci si poteva certo aspettare tutto quello che ha fatto.
Adesso allena, a quanto pare malissimo, la nazionale Argentina, in vista dei mondiali di giugno in Sudafrica. Invece di un noioso bis italico o del solito Brasile, chissà se i numi non regaleranno a Diego, e a noi, un altro sorprendente colpo di teatro.
Arturo
“Il più grande campione che ho visto giocare è Diego Armando Maradona. Credimi, figlio mio, non esisterà mai più, nei secoli dei secoli, un altro come lui” (Darwin Pastorin).
Per chi appartiene alla leva calcistica del 1978, i primi ricordi su Diego Armando Maradona dovrebbero collocarsi in certi dopo pranzo estivi del 1982, quando attorno alle televisioni, alcune ancora in bianco e nero, gli adulti si radunavano per assistere ai Mondiali di Spagna.
Allora si seppe che contro l’Italia, in una specie di gironcino preliminare alle semifinali, avrebbe giocato, con la maglia dell’Argentina, un giocatore molto pericoloso.
Gli adulti spiegarono che tale Maradona sarebbe stato marcato a uomo, cioè seguito passo passo per tutta l’estensione del campo, da Claudio Gentile, difensore e bandiera della Juventus. Questo, a loro dire, era l’unico modo per tentare di vincere.
Claudio Gentile aveva la stessa faccia di suola (con baffi annessi) di certi commissari che si possono trovare in film epocali come “Milano odia, la polizia non può sparare”, “Torino violenta”, “Il giustiziere sfida la città”.
Con zelo e ferocia degni dell’ispettore Callaghan, in effetti, Gentile si attaccò alle caviglie di Maradona per novanta minuti, buttandolo a terra ogniqualvolta la palla fosse in avvicinamento. Neutralizzato il numero dieci, l’Argentina era una squadra abbordabile e l’Italia, come è noto, vinse la partita.
Poi c’è un catino di centomila anime che lo vede palleggiare costretto in un paio di jeans, perché il presidente del Napoli, nel 1984, era riuscito a comprarlo dal Barcellona.
Poi i ricordi si fanno più nitidi, e l’ascesa e il declino costituiscono ormai memoria collettiva. Ci hanno fatto film, scritto canzoni, alcune immagini sono assurte al rango di spot-momenti di gloria, tipo la famosa accoppiata gol di mano/gol più bello (così si dice) della storia del calcio nel quarto di finale dei Mondiali in Messico del 1986 contro l’Inghilterra.
Dunque è difficile aggiungere, oggi, qualcosa su Maradona.
C’è però un momento, appena meno noto degli altri, che è, forse, abbastanza rappresentativo del significato di Diego Armando Maradona nella storia del mondo.
Nel campionato 1985/1986, la Juventus iniziò vincendo le prime otto partite. Alla nona, fu ospitata dal Napoli, in un acquitrino che era anche una bolgia. Finì uno a zero per il Napoli, grazie alla punizione di Maradona da dentro l’area di rigore.
Forse è stato il più grande perché ha incarnato uno dei rari casi in cui succede l’impossibile. In quel momento c’è tutto: la sconfitta della squadra più forte di quegli anni, la più titolata tra le italiane; il delirio di una città disabituata, in ogni senso, alla vittoria; un gesto tecnico probabilmente irripetibile, che a raccontarlo non ci si crederebbe.
Forse è stato il più grande perché con lui l’elemento dionisiaco entra nello sport, capovolgendo le logiche comuni, vincendo dove non si sarebbe dovuto (e potuto) vincere, a Napoli, ma anche in Messico, dove Maradona praticamente da solo conquistò il campionato del Mondo, giocando in una squadra di gran lunga inferiore alle concorrenti.
Se si guarda oggi l’amabile Cristiano Ronaldo, con i suoi muscoli luccicanti di jet-set, non c’è alcuno stupore nel constatarne i successi. Ma da quell’impasto di voglie e follia, quasi sempre in sovrappeso, sangue disperato e ossessivo, da quella malata allegria, da quel sovvertimento di ordine, non ci si poteva certo aspettare tutto quello che ha fatto.
Adesso allena, a quanto pare malissimo, la nazionale Argentina, in vista dei mondiali di giugno in Sudafrica. Invece di un noioso bis italico o del solito Brasile, chissà se i numi non regaleranno a Diego, e a noi, un altro sorprendente colpo di teatro.
Arturo
1 commento:
ho visto Maradona, ho visto Maradona uè mammà inammorato sò.....
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