lunedì 8 febbraio 2010

Appunti di geografia calcistica (parte I)

Si potrebbe chiamare fattore “B”, se non evocasse la lettera cui F. Cordero, che non è un centravanti argentino, dedica articoli a dozzine su un molto noto quotidiano.
Sta di fatto che è difficilmente contestabile che, ad oggi, febbraio 2010, il miglior calcio del pianeta sia giocato dal Barcellona e dal Bari.
Del Barcellona, molto si sa: trame di passaggi fitte come reticoli, sprazzi di genio incostante, cantiere aperto di giovani virgulti. Società a struttura vagamente popolare, col tifoso azionista, maglia immune da sponsor fino a poco tempo fa, quando cedette, a sue spese, a una tentazione umanitaria.
Nell’ultima finale di Champions League deve aver avuto qualche significato astrale che Lionel Messi, sghemba e minuta punta di diamante, abbia segnato un gol di testa contro le colonne difensive del Manchester United, in cui militava anche l’aitante Cristiano Ronaldo.
Ma più che in Messi, forse il cuore di questa squadra formidabile batte nel petto di Xavier Hernàndez Creus e Charles Puyol Saforcada, centrocampista di classe sopraffina il primo, centrale difensivo dai mai domi ricci il secondo, di entrambi si dice che il latte materno uscisse da un seno blu e dall’altro granata.
Del Bari, poco si sa, se non che è di certo più interessante, non foss’altro perché, mentre nell’aria opprimente delle friggitorie di Carrèr de la Mercé l’estate scorsa si aspettava l’arrivo di Ibrahimovic, sui lungomari di Bari, dinanzi a vassoi pieni di cozze, ci si chiedeva chi fossero Koman e Meggiorini.
Insomma, questo manipolo di sconosciuti seguita, domenica dopo domenica, a giocare alla velocità del fulmine, la palla inchiodata a terra, a cominciare dal portiere che, fosse per lui, neanche per parare userebbe le mani. Non stanno troppo attenti alla fase difensiva: tante di quelle volte tirano in porta e Barreto segna gol abbondanti.
Colpi di tacco, passaggi in verticale, corse folli sulle fasce; per dire, la squadra low-cost per eccellenza, la candida Inter, termine di tutte le congiure di palazzo, nemica degli arbitri e della Spectre, che si trova ad aver già vinto il campionato con diciotto mesi d’anticipo solo per l’innata capacità di “far nozze coi fichi secchi”, non è riuscita a vincerci in casa, e al ritorno è stata letteralmente ridicolizzata per tre quarti di partita, salvo poi rinvenire quando i furetti pugliesi avevano finito la birra.
Non senza augurare ai biancorossi che simile calcio futurista, almeno quanto il loro stadio kubrickiano, li conduca in europa, ipotesi anche vagamente possibile se non regalassero almeno tre o quattro gol fatti a partita, resta da chiedersi se ci sia qualcosa che accomuna questo calcio aereo e impetuoso con la latitudine da cui vortica, o per meglio dire il brivido che si prova quando l’ala s’invola, e culmina in un cross sull’uomo a rimorchio, con il vento che dal mare rimbalza sulla città, l’odore abbrustolito delle frattaglie, gli ammassi di pesce marcio sulle spiagge, la luce ovunque.
Se ciò che sta nelle viscere di Bari e Barcellona, nella loro essenza galleggiante e contorta, si ritrovi impresso tra le linee del campo.
Se esista un football meridiano e uno boreale, se in un certo modo di calciare il pallone si possa avvertire il profumo di un dopobarba irlandese oppure dei mandorli in fiore.

Arturo

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